| La lezione del mister Arrigo Sacchi: "Basta stare in difesa. Il Paese deve osare" L’ex tecnico del Milan e della Nazionale, tra calcio e società: "Viviamo ancora nell’Italia dei furbetti e delle scorciatoie Bisogna puntare sul merito, è una rivoluzione culturale"
Bologna, 15 gennaio 2018 -
Arrigo Sacchi, dopo i trionfi del suo Milan lei è stato definito un rivoluzionario, un vero Copernico del pallone. Un’etichetta giusta?
«Ho solo cercato di interpretare il calcio secondo i dettami dei suoi padri fondatori: uno sport offensivo e di squadra».
Cioè il contrario del classico catenaccio all’italiana?
«Io parto dal principio che, nello sport come nella vita, contano i valori. Una vittoria senza merito per me non è una vittoria e se fai tutto quello che puoi, ti realizzi anche perdendo. Bellezza e armonia sono le prerogative per fare un calcio spettacolare e vincente. Se questa filosofia in Italia suona strana, allora sono un rivoluzionario».
Lei si è sempre paragonato a un direttore d’orchestra...
«Sì perché nel gioco, l’elemento preponderante non è il singolo ma la squadra, cioè l’orchestra. Pensate, se il grande Pavarotti si fosse messo a cantare ‘Volare’ nel bel mezzo dell’Aida, avrebbe mandato all’aria tutto lo spettacolo. Anche chi ha grandi qualità deve mettersi al servizio della squadra».
Dicono che lei fosse allergico ai fenomeni. Non è un caso se entrò in attrito con Van Basten e prese del matto da Baggio per una sostituzione durante i mondiali americani del ’94.
«Van Basten un giorno mi disse: mister lavoriamo troppo, così non mi diverto. Gli spiegai che chi gioca al calcio è un privilegiato. E se attraverso il lavoro fosse riuscito a trasmettere ogni domenica forti emozioni al pubblico, i suoi tifosi gli sarebbero stati grati per tutta la vita. Baggio invece capì col tempo che in quella partita con la Norvegia decisi di sacrificare il suo talento per far vincere la squadra: l’espulsione di Pagliuca non mi lasciava scelta, dovevo salvare la mia orchestra».
La lezione del suo calcio si può applicare al nostro Paese?
«Il calcio è una metafora molto efficace della vita. Questa è una nazione dove si disconosce il merito, dove impera la cultura del sotterfugio. Viviamo da furbetti, cerchiamo scorciatoie, espedienti. E invece servono coraggio, generosità, bellezza, idee. Sono questi gli elementi che rendono l’uomo libero. Credo che serva una vera rivoluzione culturale per trasformare l’Italia».
Lei è stato, in campo calcistico, il grande paladino di Berlusconi, l’uomo che ha puntellato l’immagine vincente del Cavaliere con i trionfi del grande Milan. Un ruolo scomodo?
«Per niente. Considero Berlusconi un illuminato, un anticipatore dei tempi. Nel calcio non concepiva la vittoria senza bellezza, senza la qualità del gioco. Mi chiamò al Milan dopo una partita di Coppa Italia. Col mio piccolo Parma avevo fatto fuori il suo Milan, attaccando anche con i terzini. Lui era in piena campagna acquisti televisiva, stava ingaggiando Pippo Baudo e la Carrà per le sue reti...».
E per il calcio si rivolse a lei...
«Berlusconi sapeva mettermi a mio agio, parlavamo la stessa lingua, volevamo fondare il successo su valori importanti, scegliendo giocatori motivati, intelligenti ed entusiasti. Quando firmai il mio primo contratto con il Milan, lo feci in bianco. Dissi a Galliani e Paolo Berlusconi: ‘O siete dei geni o siete dei matti’. Alla fine ebbero ragione loro. Ma in quella prima stagione guadagnai meno che al Parma».
Torniamo a Berlusconi. Lei si è ritirato dal calcio nel 1999: che effetto le fa vedere il suo patron ancora in campo nell’agone politico?
«Mi viene da usare uno slogan pubblicitario: più lo spingi giù e più ritorna su. Il Cavaliere ha grandi vedute, è molto più giovane della sua età anagrafica e ha una spiccata sensibilità per i veri bisogni della gente. Politicamente lo stimo molto, una considerazione che va aldilà di amicizia e riconoscenza. Andare controcorrente in Italia non è mai facile, lui ci è riuscito e ha saputo durare nel tempo, a dispetto di chi voleva distruggerlo. Un vero fenomeno».
Lei, da italiano atipico, ha deciso anche di dimettersi sul più bello quando guidava l’Atletico Madrid...
«Il calcio è stato sempre la mia passione, ma anche la mia dannazione. Quando allenavo davo tutto, mi impegnavo ai limiti dello stress psicofisico, avevo problemi di stomaco, non riuscivo a prendere sonno, ero vittima della mia ossessione».
Ecco perché la chiamavamo Khomeini, il «fondamentalista» o anche il «matto di Fusignano’».
«C’è esagerazione in quelle parole, ma è vero che in ogni società, compreso il Milan, io firmavo per un anno solo. Non ero mai sicuro di reggere lo stress del campo per un’altra stagione. Ho usato lo stesso impegno dal Fusignano al Rimini, fino al Milan e all’Atletico. Quando mi chiesero perché lasciavo con quel contratto da favola risposi: non mi interessa essere il più ricco al cimitero».
Come vive oggi Arrigo Sacchi all’ombra del suo mito?
«Seguo il calcio a 360 gradi, faccio il commentatore per Mediaset, partecipo a convention aziendali dove cerco di applicare le mie idee in un contesto sociale. Insomma nel mio ambito ce la metto tutta per cambiare questo Paese».
L’Italia del pallone fuori dai Mondiali è un altro segno del nostro fallimento?
«Il nostro Paese vive alla giornata e raccoglie quello che semina, cioè quasi nulla. Nel calcio italiano non c’è scuola, non c’è programmazione, la Spagna ha 14 centri federali noi uno, il mondo corre veloce e noi siamo continuamente impegnati a rincorrere».
Chi vorrebbe come presidente federale dopo Tavecchio?
«Nomi non ne faccio, ma è il sistema che deve cambiare. In Italia le nomine sono frutto di inciuci e alleanze a tutti i livelli. Mi auguro che si cambi registro, che finalmente si modifichino i costumi».
Che cosa potrà salvare il nostro Paese, se esiste una medicina?
«Serve un salto culturale importante, un’operazione che ha bisogno di tempi lunghi. Siamo uno dei Paesi più corrotti al mondo, finché non capiremo che cultura e merito valgono più di ogni altra cosa, la nostra resterà una piccola Italia».
quotidiano.net
Sacchi: "Ancelotti mi fece vincere uno scudetto e Van Basten si annoiava" A casa del maestro che ha reinventato il gioco, per una diagnosi sul nostro pallone
Nell’elegante studio di Arrigo Sacchi c’è un pallone grigio autografato da Pelé, Maradona e Di Stefano. "Voleva firmarlo anche Butragueño, gli ho detto: para ti, otro". Non tutto è per tutti. Nella palestra di casa sfilano le riproduzioni fedeli, in argento, delle due Coppe Campioni, regalate da Berlusconi, e poi le due Intercontinentali, due Supercoppe europee, una italiana e la Coppa Italia, vinta come direttore tecnico del Parma. Accanto, è incorniciato il Milan 1988-89. "La squadra più forte della storia, per tanti". La cima della gloria. Ma merita un chiodo al muro anche il primo passo verso la montagna. "Fusignano, 2ª categoria. Avevo 27 anni. Non c’era una lira, raccolsi dei ragazzini. I difensori centrali avevano 14-15 anni, uno era alto 1,60. Incontrammo un centravanti che era stato in serie C. Finì 25 volte in fuorigioco".
Ieri Arrigo ha lavorato un paio d’ore in palestra per puntellare gli acciacchi: anca, ginocchia... Quelle di Ancelotti stavano peggio. "Aveva dentro più plastica che cartilagine. Lo chiamavano Terminator. Arrivato da Roma, gli certificarono un 20% di invalidità. Berlusconi mi disse: "Come faccio a comprarlo? A Roma dicono: una sola...". Io gli dissi: "Presidente, se me lo compra, vinco lo scudetto". Si convinse: "Agli ordini...". Un grande. Quando Carlo voleva comprare Nesta, Galliani gli suggerì: "Dì al presidente che ti farà vincere lo scudetto, come fece Arrigo con te". Quando faceva freddo, Carlo si scaldava il ginocchio con il phon così la plastica che si era indurita si scioglieva".
Nello studio c’è anche una scarpa dorata, dono di Ancelotti con dedica... "Per quel che è stato e per quel che sarà".
Evani invece la dedica l’ha scritta su un libro. "Lei era così avanti che quando si voltava vedeva il futuro".
Siamo venuti a casa del Patriarca, dell’uomo che ha portato il calcio nell’era moderna, per una diagnosi sul nostro pallone che non sta meglio delle ginocchia di Ancelotti. Sacchi, Juve-Napoli, Juve-Roma, Napoli-Inter, Juve-Inter... Brutte partite, dovevano essere lo spot del meglio. "Qualche giorno fa stavo vedendo una partita del Manchester City con un amico. Gli proposi: "Andiamo a farci un tè". E lui: "Ma stanno giocando". Gli spiegai: "Abbiamo già visto tante cose belle e ne vedremo delle altre dopo". Se a Napoli-Juve starnutivi sul gol di Higuain ti eri perso tutto. C’è stato poco altro".
Perché siamo brutti? "Perché siamo fermi al tatticismo di 70 anni fa. Pensiamo solo a vincere, non a un calcio di coraggio, bellezza, emozione. Hanno chiesto a Capello se vedesse delle novità. Ha risposto: il ritorno del libero. Ha ragione. Ricordo lo scozzese Roxburgh, direttore tecnico Uefa, all’Europeo del 2000, dopo la vittoria azzurra sull’Olanda. Mi disse: "Se vince l’Italia, torniamo indietro di 20 anni".
Se la sua Italia avesse vinto il Mondiale del 1994, saremmo entrati nel futuro? "No. Il mio Milan ha vinto tutto ed è stato celebrato da tutti. Un esempio forte, trascinante, c’era già. Lo ripeto sempre agli amici spagnoli: a forza di battere il Real Madrid, vi abbiamo insegnato come si fa a giocare... Prima erano individualisti anche loro. Anni fa stavo guardando una partita giovanile Italia-Danimarca con Costacurta. Più bravi individualmente noi, più squadra loro e vinsero. Billy commentò: "Hanno imparato tutti da noi, tranne che in Italia". È anche una questione di storia".
Cioè? "Siamo quasi sempre stati conquistati e occupati. Ci siamo difesi scappando e facendo i furbi. Giochiamo a calcio come in guerra: quando il nemico sbaglia, spariamo noi. Il calcio è un riflesso della storia e della società: siamo un Paese vecchio, in crisi economica, culturale e morale, povero di idee nuove per cambiare. In Serie A vedo molti gruppi e poche squadre. Una squadra si muove sincronizzata, compatta e connessa. Un gruppo è un insieme di giocatori sparpagliati a distanze irregolari".
Non siamo anche poveri di tecnica individuale? "Ho girato uno spot con Boateng e Marchisio. La controfigura, un ragazzo che faceva freestyle, palleggiava meglio di loro. Ma giocava solo in Promozione. Io dedicavo poco tempo alla tecnica individuale, la allenavo mentre educavo il gioco di squadra. Se la squadra è compatta e ricevi palla da vicino al momento giusto, sarà anche più facile stopparla. Se fai il 60% di possesso, i tuoi piedi, a forza di toccare la palla, miglioreranno. In allenamento ti accorgevi che la tecnica individuale di Gullit era mediocre, ma in partita non sbagliava nulla: aveva tecnica di gioco, non da circo. Graziani un giorno ci chiese: "Ma cos’avete fatto ad Angelo Colombo? Quando era all’Udinese non mi faceva un cross giusto...". È stato all’università. Ha giocato un calcio creativo, ottimistico, con la palla sempre ai piedi ed è migliorato. Mandela diceva: "Io non perdo mai: o vinco, o imparo". In un calcio offensivo e generoso è così".
Non risulta però che Van Basten adorasse la tattica. "Un giorno mi lasciò sulla scrivania un foglietto: "Mister, facciamo una partitella libera!". Io le facevo sempre a tema. Se la domenica avevamo fatto troppi lanci, ordinavo solo palla a terra. Marco pensava che gli italiani avessero gli anelli al naso. Gli spiegai che quando noi vincevamo Mondiali, gli olandesi erano ancora sott’acqua. Un giorno confessò: "Non mi diverto, perché si fatica troppo". Gli risposi: "Primo: mai visto vincere senza faticare. Secondo: dovresti divertirti per via transitiva, vedendo quanta gente si diverte a guardarci".
Anche lo Stadium si diverte. "Certo. La Juve a tratti fa gran calcio, ma se segna, spesso si ferma. La Juve ha una dirigenza illuminata e mi piacerebbe che smettesse di ripetere: la sola cosa che conta è vincere. Allegri è uno dei più grandi allenatori italiani di tutti i tempi. È bravissimo a innalzare al massimo la qualità dei suoi. Eroe è chi fa quello che può fare, dice Romaine Rolland. Max sa ottenere una squadra di eroi e per questo vince. Ma io vorrei che, oltre alla qualità, innalzasse anche i valori, cercasse cioè di divertire ed emozionare. Non sarebbe più solo vincitore, ma degno vincitore. Altrimenti non lascia idee da ricordare, solo vittorie".
Altro merito: tiene la squadra in pugno. Vedi Bonucci. "Grazie anche al solido appoggio del club. Al primo anno, dopo la sconfitta alla seconda giornata in casa con la Fiorentina, Van Basten criticò e i giornali ci misero contro. La domenica dopo a Cesena lo tenni fuori: "Marco, visto che sai molto di calcio, siediti vicino a me e dammi consigli". Se Berlusconi non mi avesse appoggiato il mio Milan sarebbe finito lì. Lei ci crede all’astrologia?". No. "Neanch’io, prima di conoscere Silvagni, Professore di Astrologia a Fusignano. Studiò il futuro di Van Basten, quando arrivò mi disse: si infortunerà spesso. Il Professore si faceva seppellire in spiaggia e andava per ore in catalessi. Il suo segretario andava a svegliarlo alle 5 perché arrivava la marea. Solo che il segretario giocava d’azzardo. Un giorno che era al tavolo, si dimenticò e arrivò in spiaggia appena in tempo urlando: il professore è a mollo!".
Anche Dybala ha avuto problemi con Max. "Dybala mi è sempre piaciuto. Lo consigliai a Real e Milan e gli chiesi se avrebbe voluto giocare per l’Italia quando lavoravo a Coverciano. Deve giocare mezzapunta e accettare le panchine. Ha ragione Herman Hesse: l’intelligenza è bene, la pazienza è meglio".
Un ricordo dell’Avvocato? "Prima di un Juve-Milan voleva salutare la squadra in spogliatoio. Berlusconi mi chiese se fossi d’accordo. Risposi: "Ha grande carisma. Non vorrei che i giocatori ne fossero influenzati". Feci uscire in campo la squadra un quarto d’ora prima del suo arrivo. In spogliatoio trovò solo me e Berlusconi. Disse: "Il Milan è forte. Speravo che voi due poteste rovinarlo...". Quando collaboravo con la Stampa, mi leggeva e spesso chiamava all’alba".
Non possiamo dire però che il Napoli non sia bello. "No, Sarri ha portato il Napoli già nel futuro. Non ha top player eppure esprime un gran calcio di qualità e valori. La conferma sono i tanti giocatori che sono migliorati: Koulibaly, Ghoulam, Mertens, Insigne... Lo scudetto sarebbe il giusto premio alla bellezza e alla generosità. Ma il Napoli non ha le risorse della Juve che può sottrarre i 36 gol di Higuain e inserire alternative come Cuadrado. Comunque vada, Sarri ha già vinto".
Altri tecnici nel futuro? "Giampaolo, che contattai per primo, quando Ferrara lasciò l’Under 21 e Gasperini, che ha creato una simbiosi unica con proprietà e città. E Di Francesco, che è bravissimo. Loro sì, giocano un calcio con lo spirito dei padri fondatori: coraggioso, offensivo, ottimistico. Oltre la tradizione. Come pure Oddo e De Zerbi. Ma non è facile. Alla vigilia di un Milan-Napoli mi ritrovai in un ristorante di Milano con mia moglie. C’erano anche dei giornalisti, tra i quali Brera. Uno venne al tavolo a chiedermi: "Chi marcherà Maradona? Abbiamo fatto una scommessa tra noi". Uno diceva Baresi, un altro Tassotti, un altro Galli... Mia moglie, che non segue il calcio, mi chiese: "Ma tu non giochi a zona?" Se uno non vuol capire...". Di Francesco, tra Nainggolan e spiccioli, ha qualche problema. "Lo dicevo: il calcio è un riflesso della società. Roma è la città più bella del mondo, ma soffocata dall’immondizia. Contraddizioni, problemi. Città dispersiva. È difficile vincere. "Uno scudetto a Roma ne vale dieci a Torino", dice Capello".
Gazzetta
Edited by Ibra10 - 15/1/2018, 13:00
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